CAPITOLO I

Progresso tecnico ed occupazione: sintesi dei contributi teorici

1.1 L'ipotesi di "compensazione" degli effetti: dai mercantilisti ai classici

Già i mercantilisti¹ affrontarono il rapporto tra occupazione e cambiamento tecnico: quest'ultimo era allora definito come "Semplificazioni delle Arti".
Queste erano generalmente viste con favore poiché, come sosteneva Sir William Petty² , permettevano ad "un uomo solo di svolgere il lavoro di cinque uomini" (Petty, 1690).
Tuttavia, non appena si manifestarono conseguenze negative sull'occupazione, si pensò a varare una legislazione restrittiva sull'uso dei macchinari.
Colbert³ stesso si oppose all'introduzione delle macchine (da lui definite "nemiche del lavoro") nelle imprese private e, in tal senso, sviluppò una legislazione c.d. antimacchine. Viceversa, caldeggiò la loro adozione nelle imprese pubbliche "per accorciare sui tempi e risparmiare sui costi".
I mercantilisti rilevavano i vantaggi di una superiorità tecnologica a livello di commercio internazionale, ma allo stesso tempo temevano disturbi sociali dovuti alla sostituzione di manodopera.
Il loro contributo, per certi versi, pose le basi per il successivo e più articolato pensiero dei classici.
Nel 1767 James Steuart4 , ad esempio, anticipò di mezzo secolo il pensiero di Ricardo, spiegando come un'improvvisa meccanizzazione potesse condurre ad una temporanea disoccupazione. Egli si rese conto del fatto che l'uso di macchine poteva ridurre i costi e, quindi, i prezzi, ma che raramente si rilevava un collegamento esplicito con la domanda di lavoro, per poterne così prevedere in modo inequivocabile il segno e l'entità della variazione finale.
Da un lato, non si negava il vantaggio sul fronte della competitività di prezzo dei beni ottenuti attraverso l'impiego delle macchine, dall'altro, si intuivano le incertezze circa gli esiti finali sul fronte occupazionale, che le stesse potevano comportare: "Se queste hanno l'effetto di togliere il pane a centinaia, precedentemente impiegati a svolgere semplici operazioni, esse hanno anche l'effetto di dare il pane a migliaia" (Steuart, 1767, libro I, pag. 256).
Infatti, nel lungo periodo si sarebbero verificati degli effetti compensativi (grazie all'aumento dell'occupazione nelle imprese che producevano macchinari e grazie alla riduzione dei prezzi, che avrebbe incrementato la domanda), ma, al contrario di quel che avrebbero poi assunto i sostenitori della legge degli sbocchi di Say5 , Steuart dubitava che i mercati si equilibrassero sempre.
Anzi, consapevole che il problema del reimpiego dei lavoratori disoccupati a causa delle macchine non potesse risolversi automaticamente, sosteneva che dovesse essere il governo ad affrontare e risolvere la questione.
Spettava all'uomo di Stato "evitare che le vicissitudini dei processi e dei prodotti danneggiassero gli interessi comuni a causa delle loro...conseguenze naturali" (ibidem, pag. 120).
Steuart sostenne che vi si doveva guardare come ad una questione di riallocazione dei lavoratori tra i diversi settori produttivi; dal momento che "una macchina introdotta in un'industria rendeva superflue in quel settore delle braccia, che potevano velocemente essere impiegate in un altro" (ibidem, pag. 120). Non né spiegò il motivo, né chiarì come doveva essere favorita la mobilità tra i vari settori, ma fu sempre questo autore ad intuire per primo che un ostacolo al reimpiego dei disoccupati può nascere dalle differenti capacità richieste dalle varie occupazioni, ribadendo che lo Stato deve alleviare i disagi di queste trasformazioni.
Gli economisti classici sostenevano la validità della teoria della compensazione6 , vale a dire del carattere temporaneo dei sacrifici che devono essere sopportati dai lavoratori a causa degli effetti diretti che il progresso tecnico porta sulla forza lavoro occupata.
Essi ritenevano che l'introduzione delle macchine nel breve periodo riducesse l'occupazione, ma che nel lungo la perdita dei posti di lavoro non rimanesse permanente, perché i lavoratori espulsi dalle macchine sarebbero rientrati nel processo produttivo per produrle e per rispondere all'aumento della domanda, determinato dalla diminuzione dei prezzi causata dalle nuove tecnologie.
In questa ottica, la compensazione degli effetti era un meccanismo endogeno e non richiedeva comportamenti particolari delle varie classi.
Sostanzialmente, la disoccupazione tecnologica per i classici potrebbe quindi aversi quando non si verifica un aumento della produzione capace di riassorbirla (giacché vi è un insufficiente incremento della domanda globale), oppure perché vi è un'offerta di capitale insufficiente a tal fine.
Nel 1776 l'opera di Adam Smith7 segnò la nascita del pensiero economico moderno. La rivoluzione industriale, che prese avvio in Inghilterra dalla seconda metà del Settecento, trasformò rapidamente le relazioni e i metodi di produzione industriali sancendo il passaggio da un'economia di scambio ad una basata sul sistema di fabbrica.
Per quanto riguarda il rapporto tra introduzione delle macchine ed occupazione, Smith non vedeva come inevitabile l'ipotesi della disoccupazione tecnologica. Egli riteneva sostanzialmente che gli incrementi di produttività8 , aumentando la produzione, avrebbero potuto lasciare inalterato il numero degli occupati, se il maggiore prodotto ottenuto fosse stato interamente collocato sul mercato: "Questo grande aumento della quantità del prodotto, dato dalla divisione del lavoro, è generato dallo stesso volume di occupati per tre motivi:

  1. per l'aumento della destrezza di ogni singolo operaio;
  2. per il risparmio di tempo, che viene normalmente perso nel passare da una specie di operazione ad un'altra;
  3. per l'invenzione di un gran numero di macchine che facilitano e riducono il tempo di lavoro" (Smith, 1776, pag. 6).

Secondo questo ragionamento, poteva esistere disoccupazione tecnologica solamente nel caso in cui il mercato fosse stato incapace di assorbire interamente la maggior produzione risultante dal cambiamento tecnologico.
Nel pensiero smithiano, la divisione del lavoro è posta al centro dell'attività inventiva perché essa consente di incentrare l'attenzione su una sola mansione od occupazione, così da accrescere i rendimenti.
Essa viene vista sostanzialmente come specializzazione, attraverso la quale viene meglio esplicitato il legame tra i diversi livelli della produzione ed i vari tipi di capacità dei lavoratori.
Nel suo schema teorico della struttura industriale, da lui esaminata nella suddivisione tra settori e rami, Smith considera diversi gruppi di lavoratori, le cui specifiche competenze intervengono utilmente nella produzione.
In conclusione, l'autore vede il fattore lavoro come un insieme eterogeneo, poiché coloro che partecipano al processo produttivo hanno capacità differenti ed un diverso grado di qualificazione.
Il pensiero di Smith influenzò notevolmente il dibattito che sorse di lì a poco sulla disoccupazione tecnologica, anche a causa dei vari avvenimenti storici del periodo.
Nel marzo 1812 si tenne la prima rivolta sociale organizzata contro l'utilizzo delle macchine in una borgata di Nottingham, in Inghilterra. Tale movimento, che fu definito "luddismo" dal nome del suo leggendario leader, l'operaio Ned Ludd, si opponeva all'introduzione di un nuovo grande telaio per calze (la Spinning Jenny) nella lavorazione a maglia a domicilio.
Era una rivolta contro la perdita di lavoro e la scadente qualità del prodotto, fatta da lavoratori indipendenti altamente qualificati. Essi si difendevano dall'estensione delle macchine, che permetteva il reclutamento massiccio di donne e fanciulli in sostituzione della forza lavoro qualificata.
Il "Generale Ludd" sosteneva che il deterioramento della qualità avrebbe determinato la perdita di molti mercati ed un ulteriore calo occupazionale.
Il movimento era ben organizzato ed ottenne qualche successo, ciò portò grande allarme: fu sempre più invocata la dottrina dell'economia classica per giustificare le azioni repressive contro i luddisti (che vennero puniti con la morte) e contro i sindacati.
Questo era lo sfondo che diede vita al pensiero ed all'opera di David Ricardo9 ,economista classico che per primo esplicitò un mutamento di opinione, rispetto alle teorie precedenti, sulla questione dell'impatto occupazionale dell'innovazione.
Nel 1821 Ricardo nella terza edizione dei suoi Principi10 affermò chiaramente che l'introduzione di innovazioni tecnologiche poteva danneggiare i lavoratori, poiché l'elevato costo dei macchinari, riducendo il fondo salari, avrebbe potuto creare disoccupazione.
Ricardo sostenne, più precisamente, che la sostituzione delle macchine al lavoro umano si rilevava, in genere, dannosa agli interessi della classe dei lavoratori, mentre risultava normalmente vantaggiosa per i capitalisti ed i proprietari terrieri. In proposito scatenò un'aspra diatriba affermando: "L'opinione, propria della classe operaia, che l'impiego di macchinari sia spesso nocivo ai suoi interessi, non è fondata su pregiudizi od errori, ma è allineata con i corretti principi dell'economia politica" (Ricardo, 1817, pag.392).
Il ragionamento si basa sul presupposto che l'incremento di prodotto netto, generato dal cambiamento tecnico (di cui beneficiano soltanto i proprietari terrieri ed i capitalisti) non necessariamente risulta accompagnato da un incremento del prodotto lordo (dal quale dipende, invece, il reddito complessivo ed il livello dell'occupazione globale): al contrario, questo può addirittura diminuire.
Ricardo dimostra che l'introduzione delle macchine porta ad un cambiamento della composizione del capitale, trasformandone una parte da circolante a fisso.
Se il capitale totale è dato, l'aumento di quello fisso riduce la quota di capitale circolante destinata al mantenimento dei lavoratori (fondo salari), quindi porta ad una riduzione dell'occupazione.
Se l'impiego delle nuove tecnologie (e quindi di una nuova tecnica di produzione) assicura gli stessi profitti della tecnica precedente, anche se con una produzione minore, allora il capitalista può ritenersi soddisfatto, mentre i lavoratori risultano danneggiati da quella che Ricardo chiama "disoccupazione da meccanizzazione".
Per accrescere il capitale circolante esiste però la possibilità di accrescere il capitale globale: essa dipende da una propensione al risparmio sul proprio reddito positiva del capitalista e dalla diminuzione dei prezzi11.
Ma, se queste due condizioni non fossero verificate, si genererebbe disoccupazione a causa degli sfasamenti temporali e dell'inflessibilità dei meccanismi del lavoro, direttamente conseguenti a limitazioni dell'offerta. A quel tempo, in ogni caso, Ricardo si sentì obbligato a modificare la sua formulazione alquanto severa e a rilevare gli effetti compensativi di lungo periodo.
L'introduzione delle macchine favorisce la diminuzione dei prezzi delle merci, in quanto abbassa il costo di produzione; così, a parità di redditi nominali e di bisogni, il capitalista potrà risparmiare di più.
L'aumento di capitale permette di incrementare l'occupazione. Addirittura, ove la produzione aumentasse, grazie alle macchine, tanto da fornire sotto forma di prodotto netto lo stesso volume di beni precedentemente avuto come prodotto lordo, non vi sarebbe necessariamente neanche disoccupazione.
Fondamentalmente, Ricardo ritiene che macchine e lavoro siano in costante competizione tra loro e che l'introduzione delle macchine nella produzione delle merci dipenda dal prezzo del lavoro. In conclusione, nello schema ricardiano il progresso tecnico è risparmiatore di lavoro nei confronti delle produzioni interessate al mutamento tecnologico. La possibilità di riassorbimento dei lavoratori "liberati" dipende dalla dimensione del prodotto netto che determina il livello di accumulazione del capitale, dalla quota di questo destinata a capitale circolante e dal livello della domanda di beni e servizi. In alcuni casi, tutti questi elementi potrebbero favorire il riassorbimento della "disoccupazione da meccanizzazione" attraverso la crescita dell'occupazione complessiva.

Un altro degli autori fondamentali del pensiero economico inserito all'interno del filone classico fu Karl Marx12.
Egli ritenne che il progresso tecnico fosse una variabile fondamentale di tutto il sistema economico. In tal senso, il capitalismo era caratterizzato da una continua ricerca di nuovi prodotti e processi industriali.
Pose l'accento specialmente sull'importanza delle trasformazioni sociali causate dalle "rivoluzioni tecnologiche".
Marx evidenziò che aspri conflitti nel mercato del lavoro possono portare ad un'accelerazione dei processi di meccanizzazione, con una conseguente espulsione di numerosi lavoratori dal processo produttivo (Marx, 1952, I, cap. XIII, 5).
Secondo la sua visione, la concorrenza tra imprenditori fa sì che loro stessi adottino tecniche a sempre maggior intensità di capitale, provocando indirettamente una pressione al ribasso sui salari: "Quanto più il capitale produttivo cresce, tanto più si estendono la divisione del lavoro e l'impiego delle macchine. Quanto più la divisione del lavoro e l'impiego delle macchine si estendono, tanto più si estende la concorrenza degli operai, tanto più si contrae il loro salario" (Marx, 1849).
Marx inoltre sottolineò che l'accumulazione del capitale, base dello sviluppo economico, provoca l'incremento della composizione organica del capitale, vale a dire del rapporto tra capitale fisso e variabile.
Questo si traduce in una diminuzione relativa della domanda di forza lavoro e, quindi, in un aumento della disoccupazione. Si crea così un esercito industriale di riserva, la cui dimensione varia nelle varie fasi del ciclo economico.
In conclusione, per Marx la disoccupazione tecnologica é provocata da una progressiva sostituzione delle macchine al lavoro.

 


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