CAPITOLO V

Considerazioni conclusive: dalle teorie economiche alle politiche del lavoro

5.3 Nuove tecnologie, lavoro subordinato ed atipico

Come abbiamo potuto costatare nello studio di caso affrontato nel quarto capitolo, gli aspetti legati alla situazione occupazionale di una società non sono semplici da definire, ma necessitano di un'analisi altamente disaggregata. Nel caso pratico, a livello quantitativo, si è studiato l'andamento del numero totale dei lavoratori dell'azienda presa in esame.
Si è potuto verificare che nel tempo gli occupati sono sostanzialmente aumentati, anche se in maniera non costante.
Inoltre, anche ove questi siano rimasti per un certo arco di anni gli stessi, ne è mutata la composizione.
Abbiamo visto nel capitolo precedente, come l'UNITEC sia sorta con una ventina di dipendenti e nel giro di appena quattro anni sia riuscita a quintuplicare tale numero.
In seguito, si è verificato un triennio di assestamento, attraversato dal cambio dei contratti da tempo parziale a tempo pieno. Nel 1997 l'occupazione ha ricominciato a salire e nello stesso anno è stata introdotta la legge 196 sul lavoro temporaneo.
Nel 1998 i contratti a tempo indeterminato non sono stati più la regola e da allora quelli a tempo determinato hanno cominciato ad essere utilizzati, anche se molto flebilmente. Ad oggi, su centottanta dipendenti dell'UNITEC solo dodici (pari al 6,5%) hanno un contratto a tempo determinato.
Possiamo affermare che il lavoro sta cambiando nella sua struttura. In Italia è in atto un processo che vede lavoratori ed imprese mirare a modulare meglio l'orario di lavoro. A livello generale, questo avviene poiché le imprese devono tagliare continuamente le spese, oltre che non acquistando ogni cosa che possano affittare e cercando fornitori con costi minori, anche livellando le gerarchie in reti contrattuali flessibili¹.
Flessibilità: abbiamo già visto quanti e quali significati possano esserle attribuiti, ma in ogni caso essa si rivela una variabile di valore fondamentale. Anche se non si può affermare in modo inconfutabile che all'origine della mancanza attuale dei posti di lavoro vi siano forme di garantismo, rigidità ed alto costo del lavoro, è innegabile che una "giusta dose di flessibilità" possa aiutare aziende e lavoratori a rimanere sul mercato.
Come si ricorderà nel paragrafo 2.4, si è mostrato che la creazione di nuova occupazione appare sempre più legata a forme contrattuali meno rigide di impiego, come i contratti di lavoro atipico (part-time, tempo determinato, lavoro interinale, stagionale, CFL, apprendistato e job sharing), i quali si diffondono sempre più in Italia.
In particolare, il contratto a tempo determinato permette di ricontrollare a scadenze fisse (tre o sei mesi) la posizione del collaboratore e, secondo le aziende, rappresenta un importante incentivo a crescere a livello professionale e cognitivo, per quanti vi sono soggetti. Tale tipo di contratto comporta innumerevoli vantaggi per l'impresa, un po' meno per il lavoratore, anche se c'è da rilevare che in tale maniera egli ha la possibilità di svolgere un impiego per alcuni mesi, piuttosto che rimanere senza un'occupazione.
D'altra parte, non va taciuto il fatto che, in generale, tali tipi di contratti offrono alle imprese la possibilità di alleggerire il costo del lavoratore nel lungo periodo, sia perché possono meglio adattare il flusso di occupati alle variazioni del ciclo economico, sia perché possono ridurre la permanenza di un lavoratore nell'azienda e con essa i suoi costi fissi (come il T.F.R.), quando il suo profilo professionale risultasse obsoleto.
Considerando più attentamente la legislazione vigente non si può negare che sussistono al momento notevoli incentivi per le aziende a ricorrere al lavoro temporaneo, piuttosto che alle tradizionali forme di impiego.
Tuttavia, bisogna riconoscere che con l'introduzione nell'ordinamento vigente della figura del lavoro temporaneo, la L. 196/1997 è riuscita ad aprire una breccia nel rigoroso regime garantistico del lavoro subordinato, istituzionalizzato sin dall'inizio degli anni '60. Nell'attuale situazione economico-sociale, il problema principale è di certo quello occupazionale e per risolverlo occorre sicuramente proporre soluzioni innovative.
La mancanza di un'occupazione rappresenta la negazione del valore dell'uomo: pertanto, deve ritenersi preferibile un lavoro mobile e/o provvisorio ad una disoccupazione lunga e priva di prospettive.
Siamo però altrettanto convinti che sono necessarie alcune modifiche che consentano al lavoro temporaneo di essere tale anche in relazione al ciclo di vita lavorativa dell'individuo: una sorta di incentivo che faciliti l'ingresso nella struttura occupazionale, dove però un "giusto grado di stabilità" sia anche il presupposto per poter programmare (per il lavoratore, come per l'impresa) investimenti in formazione e processi di learning by doing, dove la permanenza nell'azienda significhi anche accrescimento di capitale umano e profittabilità per gli investimenti effettuati (anche in termini di sicurezza sociale e previdenziale).
Oggi il mercato del lavoro europeo è soggetto alla concorrenza dei Paesi da poco industrializzati, al cui interno nascono nuove opportunità in settori di recente creazione (in particolare, elettronica e telematica).
Per la nostra occupazione, le prospettive dipendono dalle riforme intese a ridare mobilità e flessibilità ad un mercato del lavoro che deve stare al passo coi tempi.
Nel caso pratico, abbiamo rilevato che le conoscenze tecniche richieste ai dipendenti dell'azienda studiata sono via via aumentate nel tempo: è quindi l'elevata qualificazione ad aver consentito l'impiego di nuovo personale.
A riguardo, è evidente come l'istruzione svolga un ruolo centrale; inoltre, il reddito dei più istruiti continua a crescere rispetto a chi ha smesso di studiare.
Come si sostiene in una recente analisi (Seravalli, 2000), se si ipotizza che al processo di formazione sia abbinata la deregolamentazione dei regimi di impiego (con la possibilità del licenziamento senza giusta causa, in qualsiasi caso), l'azienda non risulterebbe durevolmente legata ai propri dipendenti, formati/addestrati a sue spese, ed essi non sarebbero incentivati a rimanere qualora altre imprese (che non hanno sostenuto i costi della loro formazione) gli offrissero condizioni salariali migliori. In tal caso, abbandonando il proprio impiego, i lavoratori esproprierebbero l'impresa del capitale di competenze su di loro investito. E' probabile inoltre che, per garantirsi un livello medio di reddito nel lungo periodo, il salario da loro richiesto sarebbe maggiore, rispetto a quello del lavoro a tempo indeterminato. Di fronte a questa situazione, le imprese sarebbero obbligate ad incrementare i propri investimenti nella formazione delle competenze dei dipendenti, così da permettere un apprendimento rapido e ricco di contenuti.
Si creerebbe ulteriore concorrenza tra le aziende per "accaparrarsi" i lavoratori più bravi, per i quali non hanno sostenuto alcun costo di addestramento e che, pertanto, possono permettersi di pagare di più.
Se il modello si realizzasse proprio in questi termini, in modo virtuoso, vi sarebbero innumerevoli vantaggi: aumento della produttività, maggiore istruzione e formazione, aumento del benessere.
Tuttavia, se l'aumento della deregolamentazione non portasse effetti positivi (meccanismo vizioso), si ridurrebbe lo spazio per uno sviluppo tecnico graduale e si giungerebbe o ad un progresso rapido e convulso oppure al declino.
Il funzionamento virtuoso o vizioso del meccanismo dipende fondamentalmente dal legame tra la crescita della produttività e quella del prodotto.
In uno scenario di deregolamentazione del mercato del lavoro, sebbene il rischio dell'espropriazione dei frutti degli investimenti in capitale umano sia cresciuto, se la domanda si sviluppasse in modo rilevante e continuo, le imprese avrebbero i mezzi per continuare ad investire in innovazione e formazione.
Nel caso in cui, invece, la domanda crescesse poco e discontinuamente, le imprese avrebbero aspettative pessimiste e scarsi mezzi e pertanto deciderebbero di non investire e di sottrarre lavoratori addestrati ad altre aziende. Il risultato sarebbe che nessuna di esse investirebbe più.
D'altra parte, è altresì vero che solo se la domanda di lavoro crescesse molto e continuamente, le famiglie investirebbero ancora nell'istruzione dei figli (dato che il lavoro non mancherebbe ed il reddito pro-capite si accrescerebbe). In conclusione, sembra preferibile adottare rispetto alle due alternative estreme, pieno successo o declino, forme flessibili di impiego soltanto nella fase iniziale di ingresso al lavoro, senza rinunciare alla centralità del posto fisso nello stock dell'occupazione.

 


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